Sui rapporti tra la 231 ed il fallimento

Cass. pen. V, Sent., (ud. 26-09-2012) 15-11-2012, n. 44824

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRASSI Aldo – Presidente –

Dott. BEVERE Antonio – Consigliere –

Dott. ZAZA Carlo – Consigliere –

Dott. SABEONE Gerardo – Consigliere –

Dott. DEMARCHI ALBENGO P. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE PRESSO TRIBUNALE DI ROMA;

nei confronti di:

1) M. I.;

avverso la sentenza n. 1252/2012 GIUDICE UDIENZA PRELIMINARE di ROMA, del 09/01/2012;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. PAOLO GIOVANNI DEMARCHI ALBENGO;

Il Procuratore generale della Corte di cassazione, dr. Gioacchino Izzo, ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso;

Per la M. I. in fallimento è presente l’Avvocato Z. C., il quale chiede il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. M. I. in fallimento è imputata:

a. dell’illecito amministrativo previsto dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 5 e art. 25-ter, lett. S, in relazione alla commissione del delitto di cui all’art. 81 cod. pen. e art. 2638 c.c., comma 2, delitto commesso nell’interesse ed a vantaggio della società da persona ( R.S.) che rivestiva al momento del fatto funzioni di rappresentanza della società, quale amministratore di diritto (capo B);

b. dell’illecito amministrativo previsto dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, artt. 5 e 25-sexies in relazione alla commissione del delitto di cui agli artt. 110 e 81 cod. pen. e D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 135, delitto commesso nell’interesse ed a vantaggio della società da persona ( R.S.) che rivestiva al momento del fatto funzioni di rappresentanza della società, quale amministratore di diritto (capo AA);

c. dell’illecito amministrativo previsto dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 5 e art. 25-ter, lett. S, in relazione alla commissione del delitto di cui all’art. 110 cod. pen. e art. 2638 c.c., comma 2, delitto commesso nell’interesse ed a vantaggio della società da persona ( R.S.) che rivestiva al momento del fatto funzioni di rappresentanza della società, quale amministratore di diritto (capo AB).

2. Il giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Roma, con sentenza del 09/01/2012, depositata il successivo 7 febbraio, ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di M. I. in ordine ai reati ascritti nei suddetti casi perchè l’illecito amministrativo sarebbe estinto per sopravvenuto fallimento della società.

3. Con una diffusa e approfondita motivazione, il Gup di Roma ha ritenuto che il fallimento della società fosse in qualche modo assimilabile alla morte del reo e dunque comportasse l’estinzione del reato; ciò sulla considerazione che la dichiarazione di fallimento priva il soggetto fallito di ogni potere in relazione al suo patrimonio e che dunque la società entra in una fase di pressochè definitiva inattività, equiparabile, quanto agli effetti, alla morte della persona fisica. Osservava poi che: – la curatela fallimentare è pacificamente un soggetto terzo rispetto alla società; – la legittimazione attiva e passiva riguardante i rapporti facenti capo alla società fallita spetta ai curatore e sarebbe irragionevole comminare a quest’ultimo, in quanto soggetto estraneo all’illecito dell’impresa, una sanzione con funzione retributiva e specialpreventiva (la condanna penale rischia di rivolgersi contro un soggetto diverso rispetto a quello nel cui interesse o vantaggio è stato commesso il reato presupposto della responsabilità amministrativa); – la curatela potrebbe in ipotesi trovarsi in una posizione processuale di tipo incompatibile, essendo da un lato legittimata a costituirsi parte civile in un ipotetico processo per bancarotta collegato ad atti di corruzione e dall’altro potrebbe trovarsi ad assumere la veste di soggetto chiamato a rispondere dell’illecito amministrativo dipendente dal reato commesso dall’amministratore; – la società è stata dichiarata fallita dopo che è stata rigettata l’istanza di ammissione al concordato preventivo, è stata rigettata l’opposizione alla revoca del fallimento, non si prospetta la possibilità di un concordato fallimentare e quindi non vi sono elementi che facciano ritenere possibile un ritorno in bonis della società, essendo anzi verosimile la prossima chiusura del fallimento; – infine, si ritiene che un rinvio a giudizio della società aggraverebbe di ulteriori spese la procedura a danno della massa dei creditori, pur essendo il dibattimento superfluo, anche in ragione dei tempi di accertamento e dell’affermazione di una responsabilità che non sarebbe suscettibile di essere portata ad esecuzione.

4. Contro la sentenza del GUP di Roma propongono ricorso per cassazione i pubblici ministeri del tribunale per violazione di legge (D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 61 e legge fallimentare), nonchè per contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

Osservano i pubblici ministeri come la società commerciale non si estingua con la dichiarazione di fallimento, la quale determina esclusivamente lo scioglimento della società; durante la procedura concorsuale gli organi societari permangono e, pur privati dei poteri amministrativi, conservano alcune funzioni (intervento all’udienza di accertamento dello stato passivo, proposizione di una domanda di concordato fallimentare, esercizio provvisorio dell’impresa), mentre l’estinzione della società consegue esclusivamente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, che il curatore ha l’onere di richiedere solo in caso di chiusura per riparto finale o per insufficienza dell’attivo. La questione circa l’individuazione del soggetto legittimato a stare in giudizio nel processo di responsabilità amministrativa dell’ente è una questione processuale da risolvere nel processo e non può costituire argomentazione per ritenere sussistente una ipotesi non codificata di estinzione del reato. Si deve poi tenere conto del fatto che la società è una persona giuridica e che la sanzione è irrogata nei confronti dell’ente e non nei confronti del soggetto che la rappresenta; una volta irrogata la sanzione pecuniaria, ben si potrà pretendere il pagamento della stessa insinuandosi allo stato passivo. Posto che il legislatore ha attribuito ai crediti dello Stato derivanti dagli illeciti amministrativi dell’ente il rango privilegiato (art. 27), ciò dimostra che è stata considerata l’ipotesi di aggressione in via esecutiva del patrimonio e la procedura fallimentare altro non è che una esecuzione di tipo concorsuale. Infine, non si può sostenere la irragionevolezza derivante dalla ineseguibilità della sanzione interdittiva, posto che tale tipo di sanzione può anche non essere applicata; in ogni caso la declaratoria di estinzione del reato per problemi legati alla esigibilità della sanzione viola il principio della obbligatorietà dell’azione penale.

5. Sotto il profilo della motivazione, lamentano i pubblici ministeri che il giudice penale abbia affermato l’impossibilità di un ritorno in bonis della società, nonchè la imminente chiusura del fallimento e la cancellazione della società, senza indicare da quali elementi concreti abbia derivato questa convinzione.

6. Il 13 settembre ha depositato in cancelleria una memoria difensiva il curatore del fallimento M. I., con la quale ha chiesto il rigetto del ricorso presentato dai pubblici ministeri del tribunale di Roma.

7. Osserva la curatela come il sopravvenire del fallimento renda di fatto indisponibile il patrimonio della società fallita, destinato alla soddisfazione dei creditori in buona fede, mentre l’irrogazione di una sanzione si risolverebbe pacificamente in un danno per questi ultimi.

8. Sarebbe poi del tutto inspiegabile sul piano social preventivo applicare una sanzione pecuniaria od interdittiva nei confronti di una società non più operativa e comunque trattandosi, secondo la difesa, di sanzione amministrativa, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 7 non vi sarebbe trasmissione agli eredi dell’obbligo di pagamento.

9. Infine, si rileva come l’applicazione della sanzione al fallimento non colpirebbe il soggetto autore dell’illecito, ma un soggetto terzo incolpevole (il fallimento).

10. In conclusione, dunque, secondo il curatore, non essendo disciplinata nel D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 28-32 l’ipotesi di fallimento, ci si troverebbe di fronte ad una lacuna legislativa, da colmare non tanto in via analogica con riferimento alle norme sull’estinzione del reato, quanto piuttosto stabilendo se abbia un senso giuridico ed economico consentire la irrogazione di una sanzione pecuniaria ad un ente non più operativo e per di più in concreto non esigibile.

Motivi della decisione

1. Il ricorso dei pubblici ministeri è fondato; occorre esaminare preliminarmente la questione relativa alla ritenuta sostanziale equiparazione del fallimento della società alla morte della persona fisica. La questione non è nuova per questa Corte, se esaminata sotto il profilo formale dell’estinzione. Questa stessa sezione si è già occupata dell’argomento specifico nella sentenza n. 47171 del 2 ottobre 2009, Vannuzzo, che così argomentava; “il Gup ha affermato in motivazione che l’avvenuto fallimento della società configurerebbe una ipotesi di estinzione dell’illecito contestato.

Non può però non rilevarsi come una simile causa di estinzione non sia prevista dalla L. n. 231 del 2001, la quale, invece, indica espressamente come causa di estinzione della responsabilità dell’ente la prescrizione per decorso del termine di legge e prevede altresì la improcedibilità nei confronti dell’ente quando sia intervenuta amnistia in relazione al reato presupposto. Come rilevato dal PM impugnante e dalla giurisprudenza sopra citata, solo quando la cessazione della attività commerciale sia formalizzata con la cancellazione dal registro delle imprese possono ritenersi cessati gli obblighi di legge a carico dell’ente. La Cassazione a Sezioni unite ha rilevato in proposito che la sentenza che dichiara il fallimento priva la società fallita dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti a quella data, assoggettandoli alla procedura esecutiva concorsuale finalizzata al soddisfacimento dei creditori, ma tale effetto di spossessamelo non si traduce in una perdita della proprietà, in quanto la società resta titolare dei beni fino al momento della vendita fallimentare (Sez. U, Sentenza n. 29951 del 24/05/2004 Cc. (dep. 09/07/2004) Rv. 228164″.

2. Orbene, la soluzione cui è giunta la sentenza richiamata è assolutamente condivisibile; è noto che il fallimento non produce l’estinzione della società, la quale non consegue automaticamente nemmeno alla chiusura della procedura, essendo necessario un atto formale di cancellazione della società da parte del curatore. Fino a quel momento la società rimane in vita, mantenendo funzioni limitate ed ausiliarie e potendo comunque ritornare in bonis, con conseguente riespansione dei poteri gestionali ed amministrativi degli organi sociali.

3. Ciò premesso, deve peraltro osservarsi come il gip di Roma non abbia affermato che il fallimento produce l’estinzione della società, quanto piuttosto che con il fallimento la società entra in uno stato di quiescenza che è assimilabile alla morte della persona fisica; ricorrendo poi all’applicazione analogica delle norme in materia di estinzione del reato per morte del reo, ha ritenuto che il fallimento dell’imprenditore collettivo determini l’estinzione della particolare figura di illecito prevista per le società dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

4. Dunque, escluso che il fallimento produca l’estinzione formale dell’ente, con conseguente venir meno della pretesa punitiva, si deve valutare se la condizione in cui si trova la società a seguito della dichiarazione di fallimento possa assimilarsi alla morte della persona fisica e legittimi pertanto l’applicazione analogica – ove questa sia in astratto possibile – dell’art. 150 cod. pen..

5. Caratteristica della morte fisiologica di un soggetto fisico è la cessazione definitiva ed irreversibile di tutte le funzioni vitali ad esso connesse; ciò rende comprensibili i motivi per cui in questo caso la legge prevede l’estinzione del reato. La pena non sarebbe eseguibile e non avrebbe comunque alcun senso sanzionare un soggetto che non esiste più; il processo verrebbe celebrato inutilmente, con un antieconomico dispendio di tempo e di energie.

6. Sono sufficienti queste brevi considerazioni generali per comprendere la sostanziale difformità tra il fallimento della società e la morte della persona fisica; nel primo caso non solo non vi è cessazione formale dell’ente nè sospensione completa di ogni attività, ma soprattutto si viene a creare una situazione non definitiva e suscettibile di regresso (nel senso di ritorno in bonis dell’impresa).

7. Il fallimento dell’impresa collettiva, pertanto, può al più assimilarsi alla situazione di un malato; una società fortemente indebitata ed in stato di pesante dissesto (come quella tratteggiata nel provvedimento del gip di Roma) può paragonarsi ad un malato grave, la cui morte è altamente probabile, ma non certa nel se e nel quando. E fino al momento della morte effettiva del soggetto non è possibile dichiarare l’estinzione del reato solo perchè il decesso è, in un futuro non lontano, altamente probabile. Solo la morte effettiva della persona fisica comporta l’estinzione del reato e dunque solo l’estinzione definitiva dell’ente può eventualmente determinare gli stessi effetti sulla sanzione per cui è giudizio.

8. Nessun pregio hanno poi le considerazioni relative alla non eseguibilità della sanzione, posto che anche qualora la società non abbia fondate prospettive di tornare in bonis (ma si tratta di valutazione che non può in questa fase condizionare la procedibilità del processo), la sanzione irrogata nel corso del fallimento potrà legittimare la pretesa creditoria dello Stato al recupero dell’importo di natura economica mediante la insinuazione al passivo. Si tratta, peraltro, di credito assistito da privilegio, la cui funzione pratica sarebbe assai limitata se tale causa di prelazione non potesse essere azionata in caso di fallimento della società. Invero, posto che la morte del reo estingue non solo il reato, ma anche la pena, seguendo il ragionamento del gip si dovrebbe ritenere che un eventuale sanzione irrogata prima del fallimento non consentirebbe comunque la insinuazione al passivo, dal momento che anche la pretesa pecuniaria dovrebbe ritenersi a tal punto estinta ai sensi dell’art. 71 cod. pen.. Oltre alla irragionevolezza di una siffatta conclusione, posto che la sanzione irrogata ha natura pecuniaria e può quindi essere eseguita attraverso il concorso endofallimentare, ne deriverebbe anche la quasi totale inutilità della disposizione normativa contenuta nel D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 27, posto che l’esecuzione coattiva nei confronti degli imprenditori collettivi si svolge quasi sempre in forma concorsuale.

9. Nè, d’altronde, si può affermare che una eventuale difficoltà od anche impossibilità concreta di recupero del credito (ad esempio per un fallimento privo di attivo) possa legittimare la declaratoria di estinzione del reato, posto che il nostro sistema giuridico è slegato da principi di effettiva eseguibilità delle pronunce giurisdizionali, al contrario vigendo il principio di obbligatorietà dell’azione penale. In caso contrario si dovrebbe dichiarare l’estinzione dei reati commessi da soggetti irreperibili o dimoranti in paesi con cui non esistono accordi di estradizione, solo per la verosimile impossibilità di eseguire la pena.

10. Ed analogamente verrebbero meno proprio nella procedura fallimentare molte azioni di carattere civile – ad esempio l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori – in tutti i casi in cui sia probabile che il debitore non possa pagare.

11. L’argomento sistematico, che fa riferimento al D.Lgs. n. 231, artt. 28-32, è errato; tali norme non contemplano il fallimento non perchè ritengono di differenziarlo dalle altre cause modificative che non estinguono il “reato”, bensì per il fatto che la procedura concorsuale non comporta una modificazione soggettiva dell’ente. A seguito del fallimento la società non cambia, ma viene esclusivamente sottoposta a una liquidazione di tipo concorsuale ad opera di un pubblico ufficiale e sotto il controllo dell’autorità giudiziaria. Non è legittima, pertanto, una interpretazione a contrario, che ritiene di desumere dalla mancata contemplazione del fallimento negli artt. suddetti la sua esclusione dalla punibilità.

12. Nè può ritenersi sussistente un vuoto normativo, quanto piuttosto una valutazione legislativa di irrilevanza, ai fini della irrogazione della sanzione, del fallimento della società. Per quanto possa sembrare irragionevole od inopportuna la perseguibilità della società fallita, non è consentito all’interprete correggere la norma, dovendo al più essere investito della questione il giudice delle leggi. Ma nessuna questione di illegittimità costituzionale è stata sollevata, nè ritiene questa corte di rilevarla d’ufficio, non essendo la legge in questione in contrasto con i principi della carta costituzionale, ne apparendo affetta da irragionevolezza manifesta.

13. Del tutto inconferente è il richiamo della sentenza di questa sezione n. 33425 dell’8/07/2008, Fazzalari, citata nella memoria presentata dal curatore del fallimento; qui non si tratta infatti di valutare la prevalenza di una procedura rispetto ad un’altra, quanto piuttosto di applicare o meno una disposizione di legge inderogabile.

Il giudice non può certo disapplicare la norma punitiva solo perchè in concreto pregiudizievole per gli interessi dei creditori;

d’altronde, una volta irrogata la sanzione lo Stato diventa egli stesso un legittimo creditore concorrente, al pari degli altri (anzi, come si è visto, un concorrente privilegiato).

11. Che sia opinabile la scelta di applicare una sanzione pecuniaria od interdittiva nei confronti di una società non più operativa è problema di politica legislativa, che non può certo legittimare l’interprete a superare il dato normativo.

12. Ancora, poi, non sono condivisibili le considerazioni relative alla mancata trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di pagamento della sanzione amministrativa, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 7. E ciò non tanto per la natura della sanzione irrogata ai sensi del D.L. n. 231 (che rimane a tutt’oggi incerta, soprattutto a causa della confusa formulazione normativa, ma che sembra appartenere più al diritto amministrativo che a quello penale, pur essendo derivante da un reato commesso dalla persona fisica che rappresenta l’ente), quanto piuttosto perchè il fallimento non determina alcuna successione, nè a titolo universale, nè a titolo particolare, dell’ente collettivo. Il fallimento non ha personalità giuridica propria, non è cioè un soggetto che succede all’impresa societaria, ma è solo una procedura che assume la gestione liquidatoria dell’ente per il tempo strettamente necessario alla soddisfazione concorsuale dei creditori. Non c’è alcuna successione, tanto che per le sanzioni amministrative irrogate nei confronti dell’ente è più che legittima l’insinuazione al passivo, nè risulta che sia mai stata dichiarata l’estinzione dell’obbligo di pagamento della sanzione amministrativa in caso di fallimento; si veda sul punto Sez. Civ. 1, n. 18729 del 06/09/2007, Rv. 599108: In materia di sanzioni amministrative per pregresse violazioni dell’imprenditore fallito, fermo il potere dell’ente impositore di determinare l’ammontare della sanzione pecuniaria, il relativo credito è soggetto alle regole concorsuali e deve essere fatto valere con insinuazione al passivo fallimentare.

13. Per i motivi elencati al punto che precede, non si può condividere l’affermazione che l’applicazione della sanzione al fallimento non colpirebbe il soggetto autore dell’illecito, ma un soggetto terzo incolpevole; il fallimento, va ribadito, non è soggetto terzo, ma una semplice procedura di gestione della crisi, che non determina alcun mutamento soggettivo dell’ente, il quale continua ad essere soggetto passivo della sanzione (di cui risponde con il suo patrimonio ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 27).

14. Quanto alla affermazione che la curatela potrebbe in alcuni casi trovarsi in una posizione processuale di tipo incompatibile, nel processo ex D.Lgs. n. 231 del 2001, è corretta e condivisibile la considerazione dei pubblici ministeri ricorrenti, secondo cui la questione circa l’individuazione del soggetto legittimato a stare in giudizio nel processo di responsabilità amministrativa dell’ente è una questione processuale da risolvere nel processo e non può costituire argomentazione per ritenere sussistente una ipotesi non codificata di estinzione del reato.

15. Va rilevato, infine, che la sanzione interdittiva non è obbligatoria, ma è in facoltà del giudice di applicarla unitamente alla sanzione pecuniaria; attiene pertanto ad una valutazione discrezionale del giudice di merito la scelta della sanzione in caso di società assoggettata alla procedura concorsuale, verosimilmente anche in considerazione della possibilità o meno di un ritorno in bonis.

16. Il ricorso dei pubblici ministeri del tribunale di Roma va dunque accolto, conseguendone l’annullamento della sentenza impugnata e il rinvio al giudice di primo grado (ufficio GUP) per una nuova valutazione in ordine al rinvio a giudizio (per l’individuazione del giudice competente in caso di annullamento con rinvio di sentenza di proscioglimento pronunziata dal G.u.p., si veda sez. 4, n. 26410 del 19/04/2007 – dep. 09/07/2007, Giganti, Rv. 236800, che ha disposto il rinvio davanti al giudice penale dell’udienza preliminare).

17. Il giudice di rinvio, sovrano nelle proprie attribuzioni di merito, si atterrà al seguente principio di diritto: “il fallimento della società non è equiparabile alla morte del reo e quindi non determina l’estinzione della sanzione amministrativa prevista dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231“.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti della M. I. in fallimento e rinvia al Tribunale di Roma per nuovo giudizio.

Brevi cenni sui rapporti che intercorrono tra la sanzione amministrativa prevista dal D.Lgs. 8/6/2001 n. 231 ed il fallimento.

Con la sentenza in commento la Suprema Corte si esprime per la prima volta sui rapporti che intercorrono tra il D.Lgs. n. 231/2001 ed il fallimento e più precisamente sull’applicabilità di una sanzione prevista dal decreto ad una società che viene dichiarata fallita.

Come è noto il decreto in questione disciplina la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche che possono, infatti, essere chiamate a rispondere per taluni reati, espressamente individuati dallo stesso, commessi nell’interesse e vantaggio delle stesse, dai propri amministratori e dipendenti.

La Cassazione nella fattispecie, su ricorso dei P.M., cassa con rinvio enucleando il seguente principio di diritto: “Il fallimento della società non è equiparabile alla morte del reo e quindi non determina l’estinzione della sanzione amministrativa prevista dal D.Lgs. 8/6/2001 n. 231”.

Il Giudice per l’udienza preliminare con sentenza di non luogo a procedere aveva infatti affermato che l’avvenuto fallimento della società avrebbe configurato un’ipotesi di estinzione dell’illecito contestato.

La Cassazione esamina preliminarmente la questione relativa alla ritenuta sostanziale equiparazione del fallimento della società alla morte della persona fisica.

Il fallimento, rileva la Suprema Corte, non produce l’estinzione della società la quale non consegue automaticamente nemmeno la chiusura della procedura essendo necessario un formale atto di cancellazione della società dal registro delle imprese.

Soltanto a seguito di tale cancellazione si possono infatti ritenere cessati gli obblighi di legge a carico della società.

L’intervenuto fallimento, come già rilevato in passato dalla giurisprudenza1, priva la società fallita dall’amministrazione e dalla disponibilità dei propri beni esistenti e non si traduce in una perdita della proprietà dei beni, che si verificherà al momento della vendita fallimentare, ma esclusivamente in uno spossessamento.

Durante la procedura fallimentare, infatti, gli organi societari permangono seppur privati di poteri amministrativi.

Il G.U.P. aveva, invece, affermato che il fallimento della società comporta uno stato di quiescenza assimilabile alla morte della persona fisica e pertanto, applicando in via analogica le norme in materia di estinzione del reato per morte del reo (art. 150 c.p.) ed aveva quindi ritenuto che il fallimento avesse determinato l’estinzione dell’illecito previsto dal D.Lgs. 231/2001.

La Suprema Corte invece non ritiene estinto l’illecito non ravvisando nel fallimento una cessazione definitiva della società considerato che lo stesso comporta esclusivamente una situazione non definitiva e suscettibile di regresso (è infatti possibile che successivamente alla chiusura del fallimento la società ritorni in bonis).

Non troverebbero quindi rilievo né le argomentazioni di natura sistematica che vorrebbero escludere l’applicabilità della sanzione di cui al D. Lgs. 231/2001 sulla base del fatto che gli articoli 28 e 32, del decreto in discorso, non contemplano il fallimento perché non si ritiene dover opere una distinzione dalle altre cause modificative che non estinguono il reato; né quelle sulla non trasmissibilità agli eredi dell’obbligo di pagamento delle sanzioni amministrative, ai sensi dell’art. 7, legge n. 689 del 1981 considerato che il fallimento non comporta alcuna successione ma esclusivamente l’apertura di una fase di liquidazione di tipo concorsuale

In passato la Suprema Corte2 si era già pronunciata in materia di sanzioni amministrative per pregresse violazioni dell’imprenditore fallito statuendo la non estinzione dell’obbligo di pagamento ed assoggettando l’accertamento del relativo credito alle regole concorsuali.

Alcun rilievo potrebbe avere poi la considerazione che l’applicazione della sanzione al fallimento lederebbe un soggetto terzo e non il soggetto autore dell’illecito potendo configurare una violazione del disposto dell’art. 27 del D.Lgs. in commento3, perché come la rileva la Cassazione il fallimento non è un soggetto terzo dal momento che non si determina alcun mutamento soggettivo dell’ente che pertanto rimane soggetto passivo della sanzione.

Questione processuale è infine quella attinente alla posizione di incompatibilità della curatela a stare in giudizio nel processo di responsabilità amministrativa dell’ente.

Concludendo lo Stato avrà diritto ad insinuarsi al passivo del fallimento con privilegio, previo deposito della domanda ed accertamento concorsuale del credito.

Leonardo Vecchione

Avvocato in Roma

1 Cfr. Cass. civ. n. 12684/2004 nel senso che la dichiarazione di fallimento attua un pignoramento generale dei beni del fallito; v. anche Cass. pen. Sez. Unite, 24-05-2004, n. 29951 (rv. 228166).

2 Cfr. Cass. civ., sez. I, 06-09-2007, n. 18729: “In materia di sanzioni amministrative per pregresse violazioni dell’imprenditore fallito, fermo il potere dell’ente impositore di determinare l’ammontare della sanzione pecuniaria, il relativo credito è soggetto alle regole concorsuali e deve essere fatto valere con insinuazione al passivo fallimentare e non mediante ordinanza-ingiunzione a norma dell’art. 18 l. n. 689/81, la quale se emessa è priva di efficacia ai fini del concorso collettivo (nella specie, la suprema corte ha ritenuto la competenza del giudice fallimentare ad accertare l’esistenza e l’entità del credito dello stato per la restituzione di aiuti comunitari che si assumano indebitamente erogati e per la conseguente sanzione amministrativa)”.

3 Così recita la norma in tema di responsabilità patrimoniale dell’ente: “1. Dell’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria risponde soltanto l’ente con il suo patrimonio o con il fondo comune. 2. I crediti dello Stato derivanti degli illeciti amministrativi dell’ente relativi a reati hanno privilegio secondo le disposizioni del codice di procedura penale sui crediti dipendenti da reato. A tale fine, la sanzione pecuniaria si intende equiparata alla pena pecuniaria”.