Lo stato di insolvenza e la c.d. “insolvenza prospettica”

LO STATO DI INSOLVENZA E LA C.D. “INSOLVENZA PROSPETTICA”

 

L’art. 5 della legge fallimentare prescrive che l’imprenditore che si trova in stato di insolvenza è dichiarato fallito.

L’insolvenza è quello stato in cui versa il debitore che non è più in grado di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni.

Il secondo comma della norma in esame prevede che costituiscono indici dello stato d’insolvenza tanto gli “inadempimenti” quanto gli “altri fatti esteriori”.

Lo stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, si realizza in presenza di una situazione d’impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività[1].

La dichiarazione di fallimento trova il suo presupposto, dal punto di vista obiettivo, nello stato d’insolvenza del debitore, il cui riscontro prescinde da ogni indagine sull’effettiva esistenza dei crediti fatti valere nei confronti del debitore[2].

L’insolvenza differisce dall’inadempimento perché costituisce uno stato e, quindi, una situazione dotata di un certo grado di stabilità, mentre l’inadempimento è un fatto e, dunque, uno degli elementi esteriori attraverso i quali può manifestarsi lo stato di insolvenza.

Se da un lato è ragionevole affermare che l’inadempimento non comporti necessariamente la sussistenza di uno stato di insolvenza, come ad esempio nel caso in cui lo stesso sia voluto dal debitore oppure trattasi di inadempimento irrisorio e, pertanto, irrilevante, dall’altro non si può sottacere che lo stato di insolvenza non suppone, necessariamente, l’esistenza di inadempimenti, né è da essi direttamente deducibile, essendo gli stessi, se effettivamente riscontrati, equiparabili agli altri fatti esteriori idonei a manifestare quello stato, con valore, quindi, meramente indiziario, da apprezzarsi caso per caso, e con possibilità di escludersene la rilevanza ove si tratti di inadempimento irrisorio[3].

Recentemente la Suprema Corte di Cassazione[4] ha rilevato che, ai fini della dichiarazione di fallimento, lo stato di insolvenza va desunto, più che dal rapporto tra attività e passività, dalla possibilità dell’impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, fronteggiando con mezzi ordinari le obbligazioni.

Per la Cassazione, nel provvedimento in esame, è fuor di dubbio, infatti, che l’accertamento dell’insolvenza, come sopra intesa, non s’identifica in modo necessario e automatico con il mero dato contabile fornito dal raffronto tra l’attivo ed il passivo patrimoniale dell’impresa; ed è parimenti indubbio che in presenza di un eventuale sbilancio negativo è pur possibile che l’imprenditore continui a godere di credito e sia di fatto in condizione di soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, configurandosi l’eventuale difficoltà in cui egli versa come meramente transitoria.

Al tempo stesso ove – all’opposto – l’eccedenza di attivo dipenda dal valore di beni patrimoniali non agevolmente liquidabili, o la cui liquidazione risulterebbe incompatibile con la permanenza dell’impresa sul mercato e con il puntuale adempimento di obbligazioni già contratte, il presupposto dell’insolvenza può esser egualmente riscontrato.

Rileva, infine, la Cassazione che è un fatto logicamente incontrovertibile che l’eventuale eccedenza del passivo sull’attivo patrimoniale costituisce, pur sempre, e nella maggior parte dei casi, uno dei tipici “fatti esteriori” che dimostrano l’impotenza dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni.

Nella fattispecie esaminata dalla Suprema Corte il debitore ricorrente dichiarato fallito censurava che l’accertamento dello stato d’insolvenza si fosse determinato mediante una mera applicazione dei criteri civilistici valevoli in tema di inadempimento delle obbligazioni e, quindi secondo un’insolvenza cd. “civile”, rispondente a un concetto statico che si concretizza nel momento in cui il peggioramento delle condizioni patrimoniali del debitore gli impedisce di adempiere con regolarità le proprie obbligazioni, e non già con riferimento al concetto di ordine dinamico della cd. insolvenza “commerciale” che avrebbe dovuto far tener conto della strategia di risanamento dell’esposizione debitoria nel lungo periodo posta in essere dalla debitrice e finalizzata al rilancio dell’attività con specifico riferimento alla possibile continuità aziendale.

La Cassazione, rilevando che la sentenza impugnata aveva considerato l’insolvenza dinamicamente, in relazione cioè al complesso delle operazioni economiche ascrivibili all’impresa, ha confermato la sentenza impugnata che, muovendo dal raffronto fra attivo e passivo, aveva riconosciuto nell’eccedenza di quest’ultimo rispetto al primo un “fatto esteriore” sintomatico dell’incapacità non transitoria dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni.

 

Leonardo Vecchione

Avvocato in Roma

[1] Cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 13 marzo 2001, n. 115.

[2] Cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 11 febbraio 2003, n. 1997.

[3] Cfr. Cass. civ. Sez. VI – 1 Ord., 15 dicembre, n. 30209.

[4] Cfr. Cass. civ. Sez. I Sent., 20 novembre 2018, n. 29913, conforme a Cass. Cass. civ. Sez. I, 01 dicembre 2005, n. 26217.