La dichiarazione di fallimento interrompe il mandato difensivo ma il giudizio di Cassazione procede d’ufficio.

LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO INTERROMPE IL MANDATO DIFENSIVO MA IL GIUDIZIO DI CASSAZIONE PROCEDE D’UFFICIO.

 

In caso di fallimento del mandante, il mandato difensionale conferito con la procura ad litem si scioglie immediatamente ma l’apertura del fallimento non comporta l’interruzione del giudizio di cassazione, fondandosi la mancata interruzione di tale giudizio esclusivamente sull’impulso d’ufficio che la caratterizza.

Questo è quanto statuito dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 23355 del 24 febbraio 2020[1].

Il mandato al difensore non è, quindi, soggetto alla disciplina del mandato in generale di cui all’art. 78, comma 2, legge fallim.

Per effetto della dichiarazione di fallimento, infatti, il mandato difensionale conferito nelle controversie non aventi natura personale per il fallito non entra né in una fase di sospensione, in attesa che il curatore eserciti la facoltà di cui all’art. 72 legge fallim., né è caratterizzato dall’ultrattività, bensì si scioglie immediatamente.

Lo scioglimento immediato del mandato difensionale si evince sia dall’art. 43, comma 1, legge fallimentare, secondo cui il fallito perde, per effetto della dichiarazione di fallimento, la legittimazione processuale in tutte le controversie non aventi natura personale, sia dall’art. 43 comma 3. legge fallim., secondo cui l’apertura del fallimento determina automaticamente l’interruzione dei processi (di merito) in corso.

Per la Cassazione, invero, l’ultrattività del mandato, da intendersi per tale la possibilità del difensore di continuare a compiere gli atti processuali in nome e per conto del cliente, che trova la propria fonte nel potere discrezionale del professionista di dichiarare o meno (in quella fase del giudizio) la causa interruttiva, non ha luogo in caso di dichiarazione di fallimento atteso che, proprio perché l’interruzione del giudizio di merito è automatica e deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dell’evento, la stessa è sottratta all’ordinario regime dettato in materia dall’art. 300 cod. proc. civ.[2].

 

Né può invocarsi il principio di ultrattività del mandato in ipotesi di dichiarazione di fallimento intervenuta nel corso di un giudizio di cassazione, rileva, poi, la Suprema Corte solo perché l’apertura del fallimento non comporta l’interruzione del giudizio di legittimità, fondandosi la mancata interruzione di tale giudizio esclusivamente sull’impulso d’ufficio che lo caratterizza[3].

La Cassazione nel richiamare il principio che il giudizio di cassazione è dominato dall’impulso d’ufficio, differentemente dai giudizi di merito ove vige il principio dispositivo, riprende, dunque, l’orientamento delle Sezioni Unite[4], per il quale in tale sede non possono operare gli eventi, previsti dagli att. 299 e ss. cod. proc. civ., che determinano l’interruzione del processo.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ha, quindi statuito che la mancata interruzione del giudizio di legittimità a seguito del verificarsi di uno degli eventi di cui agli artt. 299 e ss. cod. proc. civ. o dell’art. 43 legge fall, non dipende affatto dall’ultrattività del mandato difensivo – che è invece venuto inesorabilmente meno – ma dall’impulso d’ufficio di tale giudizio, la cui struttura impone a ciascuna parte (privata della assistenza tecnica) un particolare onere di attenzione, gli effetti della cui inosservanza ricadono sulla stessa parte.

Ne consegue che, a seguito della dichiarazione di fallimento intervenuta nel giudizio di legittimità, il legale cui era stato precedentemente conferito mandato ad litem, proprio perché (nelle controversie non aventi natura personale del fallito) è definitivamente venuto meno il rapporto professionale che lo legava alla parte assistita, non ha più alcun titolo per proseguire la propria attività difensiva.

 

Leonardo Vecchione

Avvocato in Roma

[1] Cfr. Cass. civ., sez. I, 24 febbraio 2020, n. 23355.

[2] Cfr. Cass. civ., sez. I, 11 aprile 2018, n. 9016, per la quale “Una volta intervenuto il fallimento, l’interruzione è sottratta all’ordinario regime dettato in materia dall’art. 300 c.p.c., nel senso, cioè, che la stessa è automatica e deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto comunque a conoscenza dell’evento -, ma non anche nel senso che la parte non fallita sia tenuta alla riassunzione del processo nei confronti del curatore indipendentemente dal fatto che l’interruzione sia stata o meno dichiarata. Il che equivale a dire che la nuova formulazione della L. Fall., art. 43, comma 3, nel prevedere un effetto interruttivo automatico provocato dal fallimento sulla lite pendente, ha inteso sottrarre alla discrezionalità della parte colpita dall’evento interruttivo la rappresentazione dello stesso all’interno del processo. Ciò nonostante il decorso dei termini previsti dall’art. 305 c.p.c., ai fini della declaratoria di estinzione presuppone, rispetto alla parte contrapposta a quella colpita dall’evento interruttivo, non solo la conoscenza in forma legale del medesimo evento, ma anche una situazione di quiescenza del processo, che si verifica per effetto della formale constatazione da parte del giudice istruttore dell’avvenuta interruzione automatica della lite, comunque essa sia stata conosciuta”.

Conforme a Cass. civ., sez. VI – 1 ord., 01 marzo 2017, n. 5288, secondo cui “L’art. 43, comma 3, l.fall. va interpretato nel senso che, intervenuto il fallimento, l’interruzione è sottratta all’ordinario regime dettato in materia dall’art. 300 c.p.c., nel senso, cioè, che è automatica e deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dall’evento, ma non anche nel senso che la parte non fallita sia tenuta alla riassunzione del processo nei confronti del curatore indipendentemente dal fatto che l’interruzione sia stata, o meno, dichiarata”.

[3] Cfr.  Cass. civ., sez. I ord., 15 novembre 2017, n. 27143, per cui “L’intervenuta modifica dell’art. 43 l.fall. per effetto dell’art. 41 del d.lgs. n. 5 del 2006, nella parte in cui stabilisce che “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”, non comporta l’interruzione del giudizio di legittimità, posto che in quest’ultimo, in quanto dominato dall’impulso d’ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge”.

[4] Cfr. Cass. civ., Sez. Unite, 14 ottobre 1992, n. 11195, per la quale: “Il principio, secondo il quale il processo di cassazione, caratterizzato dall’impulso d’ufficio, non è soggetto ad interruzione in presenza degli eventi di cui agli art. 299 segg. c. p. c., tenendo conto che tali norme si riferiscono esclusivamente al giudizio di merito e non sono suscettibili di applicazione analogica in quello di legittimità, non trova deroga quando, dopo la proposizione del ricorso, si rendano necessari atti od iniziative della parte o del difensore, atteso che, pure in questi casi, la mancata previsione dell’interruzione non implica lesione del diritto di difesa o menomazione del contraddittorio, restando a carico dell’interessato di attivarsi per ovviare ad evenienze conosciute o comunque conoscibili”.